L’altro giorno, con un po’ di ritardo causato da una
giornata a Gardaland con i bambini, ho afferrato l’ultimo trolley rimasto
chiuso dalle vacanze di Pasqua per svuotarne il contenuto in bagno, dividerlo e
fare un primo bucato.
Era il trolley dei bambini, vestiti sporchi di fango ed
erba, calzini con la sabbia sia dentro che fuori, magliette al pomodoro e
pantaloni al cioccolato, prima ancora di aprire sapevo già cosa aspettarmi.
Ma appena
ho afferrato la cerniera per sbloccare la chiusura ho avuto come un flash e lì,
seduta per terra in bagno, ho cominciato a piangere come una disperata.
Ho visto
un altro trolley e ho visto una madre tedesca che probabilmente darebbe la vita
per poter aprire il trolley del figlio, con tutti quei vestiti puzzolenti da
adolescente, con le magliette nuove di Barcellona mischiate a quelle sporche
usate durante la gita scolastica. Un trolley che adesso è sbriciolato, come
quel figlio, su una montagna grigia, brutta, fredda.
Un calzino, solo un
calzino, sporco, puzzolente come solo a sedici anni è possibile ridurlo,
basterebbe a questa donna? Forse no, ma sicuramente lo prenderebbe e lo
stringerebbe a sé come se fosse l’unico aggancio per poter stare attaccata alla
vita, alla realtà.
Tutte le mamme, penso anche a quella che aveva un figlio di
cui essere orgogliosa, un figlio che fin da piccolo sognava di volare, un
figlio che un giorno di sole, con il buio intorno e nel cuore ha deciso di
portare con sé 149 persone perché la vita non valeva più la pena di essere
vissuta.
Non so nemmeno immaginare come si possa stare, cosa si possa
pensare, se ancora si riesce a pensare a qualcosa. Penso alla Pietà in San
Pietro a Roma, la Madonna con in braccio il Figlio morto. Prego che stringa a sé
anche i figli di queste mamme, che li porti nel suo abbraccio fino al Padre. Prego
che stringa e consoli anche queste donne che, come scriveva Péguy, non hanno
nemmeno più lacrime per piangere.
Prego e strofino le macchie sui pantaloni di mio figlio,
prego e lavo la maglia di mia figlia con la stessa cura e lo stesso amore con
cui lavavo lei quando aveva pochi mesi, divido i capi soppesandoli, li osservo
ad uno ad uno mentre vorrei correre a scuola ad abbracciare i miei bambini. Poi
penso alla cura con cui faremmo le cose, anche le più banali come un bucato, se
solo avessimo in mente in ogni istante il Destino, il fine ultimo del fare le
cose, il perché le facciamo. Ma noi siamo così, ci dimentichiamo, l’uomo è
dimentico.
Trovo per l’ennesima volta un buco nei pantaloni nuovi di
mio figlio che ha l’abitudine di lanciarsi in scivolata sulle ginocchia e mi
arrabbio. Già non provo più tutto quell’amore di qualche secondo prima? No, ma
le cose prendono il sopravvento e noi ci dimentichiamo. Prego di poter avere
ogni giorno la coscienza del perché vale la pena fare le cose in un certo modo,
di avere la coscienza del mio compito, della mia vocazione e, in via del tutto
eccezionale, prima di uscire di casa rifaccio anche i letti di tutta la
famiglia.
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